Il dramma della storia e il suo ricordo
Recentemente si è tenuto all’ Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia un convegno dedicato all’archivio del Vajont. Vajont 60 anni dopo, fonti per la storia. Il convegno ha visto varie voci archivistiche alternarsi. In particolare i due ex direttori dell’Archivio di Stato di Belluno, Eurigio Tonetti e Claudia Salmini, a lungo anche funzionari dell’Archivio di Stato di Venezia, ci hanno fatto conoscere la storia di questo archivio contemporaneo, che si costituì a seguito del lungo processo per la strage del Vajont, avvenuta l’8 ottobre del 1963.
Un dramma nelle carte
Per la dolorosità del tema, che riguarda una catastrofe che sconvolse l’Italia, è necessario usare delicatezza e sensibilità. parlando di questo archivio. Se la storia del dramma del Vajont è stata scritta da molti, in primis da Maurizio Reberschak, presente al convegno, quella del suo archivio, che rischiò anch’esso di scomparire, è poco conosciuta.
Un archivio in viaggio
Il fascicolo del Vajont è costituito dall’insieme della documentazione nata dal lungo processo per il disastro colposo della frana del Vajont, avvenuta l’8 ottobre 1963. Vi si trovano la documentazione scritta, costituita da testimonianze, perizie, denunce, interrogatori e quella materiale, costituita anche da campioni di rocce di montagna. La documentazione raggiunse inizialmente la consistenza di 100 faldoni, per poi salire a 256 faldoni nel corso dei processi, diventando un vero e proprio archivio a sé stante. L’archivio e il processo vennero spostati più volte; nel 1968 migrarono da Belluno all’Aquila, in seguito il materiale venne portato in Corte d’Appello, poi in Cassazione per rientrare finalmente nella sede nel Tribunale nel 1971, alla sentenza definitiva per disastro. Come è stato osservato, le vittime dovettero percorrere 600 chilometri per partecipare ai processi e a ciò si aggiungeva il disagio di sentire durante i procedimenti i loro nomi storpiati da pronunce sbagliate. La legge prevede che passino 40 anni prima che la documentazione archivistica contemporanea di un processo sia versata negli archivi, quindi questi documenti furono conservati a L’Aquila nello scantinato del tribunale. Lì la documentazione ebbe un primo danno quando una decina di faldoni subì delle infiltrazioni d’acqua. Un anziano cancelliere portò quindi tutti i faldoni a mano fino ad un piano ammezzato.
Secondo la legge l’archivio doveva rientrare a Belluno nel 2009, ma il trasferimento, che avvenne con un camion scortato, fu anticipato di un anno. Fu così che l’archivio si salvò e non fu coinvolto nel tremendo terremoto dell’Aquila del 2009, che distrusse anche il Palazzo della Prefettura, dove era conservato in precedenza l’archivio.
Il professore Maurizio Reberschak cercò di accedere alla documentazione negli anni Ottanta e Novanta senza successo. Solo nel 2002 il Presidente del Tribunale, che aveva affiancato il Pubblico Ministero in primo grado, gli aprì letteralmente le porte dell’archivio per la prima volta, permettendogli di consultare i documenti.
Dalla sua lettura dell’archivio nacque il libro Grande Vajont. Nei primi anni 2000 fu costituito il Comitato dei Sopravvissuti. Il loro sito è toccante, fu creato da cinque ragazzi sopravvissuti al crollo della diga e presenta anche una ricca documentazione fotografica. Negli anni seguenti si riordinò anche il cimitero con le 2000 vittime. In seguito il Comune di Longarone chiese il fascicolo processuale per renderlo fruibile tramite l’ Associazione Vajont Onlus, poiché c’era nella popolazione bellunese la necessità di riappropriarsi della memoria e Il 10 dicembre 2009 l’insieme dei fascicoli arrivò a Belluno .
Archivi per non dimenticare.
La drammaticità dell’archivio lo rende una testimonianza diversa, perciò è stato deciso di lasciare le carte dove avrebbero potuto avere un significato per la comunità locale. Come sede fu scelta una vecchia chiesa comprata dal Comune. La Fondazione Vajont e il Ministero della Cultura resero possibile il lavoro di schedatura e la digitalizzazione, da cui fu esclusa la parte fotografica, che non è ancora considerata pubblicabile. La documentazione fu restaurata dalle monache benedettine e se ne trassero 3200 schede analitiche. Oltre ai faldoni c’era un magazzino con 126 contenitori con carotaggi, 166 casse di legno con rocce, 21 pacchi di rilievi sismografici e scatole di cartone con sassi e ghiaia e due plastici in gesso della valle e monte Toc. L’archivio del Vajont è stato dichiarato nel 2023 un Patrimonio Unesco in quanto “memoria del mondo”.
Fiorella Pagotto
Questo è il sito dei Sopravvissuti Qui trovate il link al convegno